L’attesissima mostra che il MUDEC di Milano presenta al pubblico dal 21 settembre 2023 al 28 gennaio 2024 ribadisce una versione di Vincent Van Gogh che va al di là di ogni stereotipo sino ad ora avvalorato: la prospettiva di un Van Gogh aggiornato sulle tendenze culturali del suo tempo, un osservatore, un intellettuale. L’anno del centosettantesimo anniversario della morte di questo grande artista si conclude con un’esposizione in suo onore ed era iniziato nello stesso modo, con una mostra a Roma di cui mi fa piacere ricordare le sottigliezze.
Nel parlare della passata mostra romana a Palazzo Bonaparte che ho profondamente apprezzato, la sensibilità – talora equiparata alla fragilità – di Vincent Van Gogh torna a toccarmi l’anima. La sua visione autentica e diretta del mondo, specialmente quello contadino e operaio, resta ad oggi la più antica sperimentazione sociologica e antropologica che un artista abbia mai compiuto, volontariamente o involontariamente.
L’ARTE DELLE PICCOLE COSE
Non ricapiterà mai più nella storia dell’arte, a mio parere, che un osservatore sia in grado di sbirciare dal buco della serratura di una casa qualunque, potendovi scorgere l’immagine eterna di volti segnati, sguardi stanchi, mani deformate, corpi consumati dal lavoro, in un insieme di personalità che sembrano quasi parlarsi tra loro.
E’ un racconto vero e conciso, senza troppi fronzoli, di uno spaccato di società senza romanticismo ma con tanto sentimento: è quello dell’olio su tela I Mangiatori di Patate. Non esiste, per quanto mi riguarda, un’opera più calda e definita di questa. E’ una fotografia della semplicità.
“C’ERA UN RAGAZZO, CHE COME ME…”
Van Gogh si fa portavoce di quell’inevitabile destino, di quell’idea di libertà confinata al nostro copione di vita già scritto, il quale necessariamente prevederà il taglio di qualche scena. I poveri dipinti da Van Gogh rappresentano lui stesso come rappresentano tutti noi, poveri di qualcosa che in eterno ci mancherà o non riusciremo ad ottenere: la libertà, l’amore, un salario dignitoso.
Siamo tutti in balìa della vita, che ha deciso cosa ne sarà di noi già dal giorno in cui siamo nati. A Vincent la vita ha donato il talento dell’arte e della pittura, una genialità che gli consente di vedere ciò che gli altri non vedono e sentire ciò che gli altri non sentono. Un ragazzo umile, con la testa piena di sogni, al quale la natura ha affibbiato il genio ma anche la povertà, la miseria, la disperazione.
La possibilità di usufruire di strumenti tecnici più adeguati gli avrebbe spianato la strada per una carriera di successo e risparmiato molte sofferenze. Eppure, ecco cos’è stato in grado di costruire, nella sua vita trascorsa ai margini della società, osservando quei reietti di cui forse si sentiva un po’ parte.
Van Gogh dedica una lunga serie di capolavori ai minatori, dopo essere stato a stretto contatto con loro con l’intento di sentirne la fatica sulle proprie spalle e sulla punta dei propri pennelli. L’amore per i poveri, per gli esclusi, i rozzi, gli ignoranti, coloro a cui nessuno aveva mai riservato attenzione nell’arte, diviene qui soggetto principale della rappresentazione.
E Vincent decide, volontariamente, di renderlo tale. Quella miseria che non aveva potuto evitare alla nascita, nella sua arte è una direzione intrapresa consapevolmente: un binocolo puntato sulla vita contadina, sui pastori, su coloro che si sporcano davvero le mani con fatica nei campi. Van Gogh annusa, ascolta e osserva, riproducendo odori, suoni e colori di una natura che ci appartiene e alla quale dobbiamo ritornare.
Un dibattito intrapreso negli ultimi anni – quello sulla necessità di guardare alla natura come nobile depositaria dei valori umani più autentici – era già stato quindi delineato da quell’uomo fragile, sensibile, solitario e il cui realismo visionario è rimasto spesso incompreso.
PER VAN GOGH, IL LAVORO E’ DIGNITA’
Van Gogh non ha certamente intenzione di sfociare in considerazioni politiche o di denuncia sociale. Si tratta semplicemente di una profonda solidarietà e di un profondo senso di appartenenza alla fatica, il lavoro e lo spirito di condivisione propri delle famiglie contadine. Mai indegnamente caricaturali, buffe o drammatiche: sempre decorosamente serie e composte, anche nella miseria, in modo da riscattare la propria condizione di emarginati.
Le parole dello stesso Van Gogh, scritte in una delle tante lettere al fratello Theo, recitano proprio così:
Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della lampada ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto. E quindi parlo di lavoro manuale. E di come essi si siano guadagnati il cibo. Ho voluto far pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili.
I Mangiatori di Patate fotografa un momento intimo di una famiglia, rappresentato con colori nettamente pesanti che richiamano la terra e il grigio della stanchezza.
Il protagonista, comunque, è il piatto di patate e cicorie, quasi un tesoro prezioso da cui il gruppo trae forza e fiducia nel lavoro. Quel piatto diventa il perno di una condivisione gioiosa, di una liberazione dal lavoro e dalla fatica.
Poi c’è la ragazzina di spalle, avvolta da una specie di alone divino: una sorta di fascio di luce e di speranza per il futuro, ulteriore riscatto morale che la porterà a ricercare la propria strada, nonostante l’origine umile. In un certo qual modo Van Gogh cerca di salvarla, è come se le dicesse presto, elevati, emancipati da questa vita d’ignoranza e di privazioni.
Non c’è spazio per il debole, depresso e infelice Van Gogh. Qui l’artista partecipa emotivamente alla condizione e lancia un messaggio di speranza: anche davanti alle difficoltà si può scorgere qualcosa di positivo e produrre qualcosa di buono.
Semplicità, condivisione, convivialità, piccole ma grandi conquiste alimentari, famiglia e umiltà: sono questi elementi, tutti assieme, a rappresentare la vera ricchezza.
Il dipinto è conservato al Rijksmuseum Vincent Van Gogh di Amsterdam.
IN RICCHEZZA E IN POVERTA’
Se tutti noi nasciamo, quindi, poveri in qualcosa, la vita vera non avrà mai prezzo e saremo sempre troppo fragili per poterla dirottare totalmente. In una condizione di eterna precarietà, allora, chi sono i veri ricchi? Per Van Gogh, azzardo a dire, ricco è colui che sa alimentarsi dei frutti prodotti dai suoi stessi alberi, quelli dell’anima.
Van Gogh, nella sua immensa grandezza, ci sta dicendo che camminare fra gli ultimi, in una società da sempre tesa alla standardizzazione, è un beneficio che ci permette di diventare i primi. La vera povertà è quella dell’anima, non del denaro.
E’ povero chi non sa più saziarsi con un pasto di patate e cicoria, è povero colui che non sa amare e condividere, chi non si emoziona davanti al mistero della natura e chi si serve della sensibilità altrui per procurargli debolezze. E’ povero chi ha perso la speranza di poter migliorare o cambiare.
L’Ultimo di Van Gogh fatica fino a straziarsi, mosso da una prerogativa sempre più rara da riscontrare negli esseri umani: la forza di volontà.
L’unica in grado di cambiare le cose. L’unica a far girare la ruota della vita e a renderci, dopotutto, immortali.