Oggi, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, vi racconto una storia, quella dei miei ventidue anni ma anche i miei venti, i miei ventisei, i miei venticinque. Perché Giulia aveva 22 anni, come li avevo io, quegli anni più belli che non tornano più. Ho atteso per anni l’arrivo di un cenno, un segnale, qualcosa che mi facesse sentire meno sola nel portare questo peso. Ero sicura sarebbe arrivato questo momento, quello in cui la sofferenza e le lacrime di tutte noi si sarebbero fatte portavoce dell’inizio di una nuova era, quella di un mondo che cambia e finalmente identifica il male, decidendo di combatterlo.
La violenza sulle donne vi riguarda, cari uomini, anche se continuate a girarvi dall’altra parte e fingere di non essere voi, di non avere colpa, di non saperne nulla. Ho sentito parlare addirittura di moda. Vi riguarda nelle parole, nei gesti, nel modo di intendere la vita e le relazioni. E’ arrivato il momento di farci i conti.
Le parole salveranno il mondo perché sono, a mio parere, l’unico mezzo che abbiamo per trasmettere un messaggio di speranza e compartecipazione. C’è chi mi additerebbe come esibizionista, chi mi appunterebbe il fatto le vicende personali siano da tenere nello scrigno della propria intimità. Ma qui non si parlerà solo di me, si parlerà di noi, di una storia comune e universale. Vi racconto i miei ventidue anni perché comprendo solo adesso l’urgente necessità di uscire dall’isolamento nel quale siamo finiti, collaterale al bisogno di tornare a coltivare il valore della condivisione, dell’ascolto, dell’empatia e della trasmissione di informazioni utili e corrette. Vi racconto i miei venti, ventuno, venticinque, ventidue anni, perché ogni mattino mi sveglio e penso a quanto sono fortunata, mentre Giulia e tante altre prima di lei non sono riuscite a liberarsi dal pericolo che camminava al loro fianco, come invece ho fatto io.
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Dare forma concreta a un percorso che si è compiuto nel tempo è come cercare di definire l’inizio e la fine del Medioevo: nessuno sa com’è iniziata, com’è successo, cosa è sfuggito alle previsioni. Credo di non saperlo neppure io stessa.
Penso semplicemente che sia stata l’ingenuità dei vent’anni, quello stato confusionale che aleggiava nella mia mente poco dopo la morte improvvisa di mio padre, accompagnata da quella fame di vita che ho sempre avuto. O forse è stata la frenetica esistenza da studentessa lavoratrice, a rendermi così cieca e distratta.
Perché io alla fine, mica lo sapevo cosa fosse davvero l’amore fra due persone. Perché alla fine l’iter è stato lo stesso, un iter così classico da essere etichettato senza sospetti come la regola, non l’eccezione: il ragazzo di bell’aspetto, con la faccia pulita, l’espressione contrita e il tono di voce formale, che ti tende la mano con educazione, ti intrattiene in un corridoio della Sapienza e ti parla dell’esame imminente.
Perché a vent’anni se sei donna ti senti in grado di fare tutto ma di non meritare niente, di non poter chiedere, men che meno pretendere.
Quel ragazzo impostato, altruista, dai grandi valori professati, semplice e un po’ timido, con i soldi in tasca e le imprese di famiglia nel centro-sud, nella seconda regione più piccola d’Italia; sembrava davvero un cuore d’oro allevato con amore e dedizione in una famiglia sana.
Nella mia mente è stato come riconoscermi, perché forse era ciò di cui avevo bisogno. Riconoscermi in dei valori condivisi, quelli di una ragazzina cresciuta in paese, lontana da ogni tipo di malignità e pericolo, in una famiglia normale.
Da quel momento è iniziata un’esperienza circondata ancora oggi da nebbia e nuvole di fumo, lontana nel tempo e nell’anima, il ricordo di un’altra vita, al termine della quale sono morta e poi risorta.
Aveva ogni tipo di attenzione per me, ogni tipo di cura, di curiosità, di volontà. Poi, giorno dopo giorno, iniziarono ad emergere i lati oscuri, quelle piccole crepe nelle quali la mia profonda ingenuità continuava ad inserire del collante, senza sosta.
Scenate in pubblico. Minacce. Insulti. Immotivate perdite di controllo emotivo e di controllo della rabbia, di punto in bianco, solo perché durante una cena potevo essermi seduta accanto a un amico della sua comitiva, potevo aver chiacchierato con qualcuno o aver preferito il formaggio alla carne.
La colpa era tutta la mia, ero troppo infantile, troppo disattenta, passavo i pomeriggi a studiare invece di prestare attenzione a lui. Se lui vedeva cose che io non facevo realmente, evidentemente aveva ragione, ero io a non accorgermi di quanto fossi sbagliata.
Non potevo guardare nessuno troppo a lungo, nemmeno ruotare il collo senza volerlo mentre ero seduta sul treno. Non era rispettoso nei suoi confronti, certo. Non potevo vestirmi come piaceva a me, se a lui non piaceva. Non potevo lasciarlo da solo nemmeno per un minuto, senza coltivare in me un senso di colpa indiretto e pungente.
Se lui si arrabbiava fino a lanciarmi oggetti addosso, fino a strattonarmi o a ferire la mia sensibilità umiliandomi a parole davanti a tutti, evidentemente me lo meritavo, ero io a provocarlo. Dopotutto, è normale essere gelosi. Dopotutto, se un ragazzo così bravo e buono con tutti arriva a certi livelli, è perché una donna difficile, ingestibile, ce l’ha portato. Come se avere una donna significasse dover ingabbiare un leone da domare in un circo.
Lo ammetto, non ho mai avuto un carattere remissivo e questa per me fu la mia più grande croce: dentro di me sapevo che lo avrei salvato, che lo avrei cambiato, che avrei riempito la mia vita aiutandolo a migliorare e questo mi avrebbe resa finalmente degna di essere trattata con amore sano e sincero. Che donna sono se non riesco ad aiutare il mio uomo, se non sono il suo supporto, la sua àncora di salvezza, colei che lo renderà completo?
Non ho mai avuto un carattere debole, non ho mai teso alla depressione e questo mi macchiava di una colpa imperdonabile: quella di non essere sua succube, di non assecondarlo, di non metterlo sempre e comunque al centro della mia esistenza.
Eppure, quell’esistenza lui è riuscito, per quattro anni e anche di più, ad annullarla, annientarla mentalmente e fisicamente fino al limite del possibile. Io ero la sua maestra d’asilo, vista la sua incapacità di assumersi delle responsabilità e di percorrere la sua strada autonomamente.
Era costantemente dipendente da sua madre e dai suoi genitori in generale, tanto da sviluppare con loro un rapporto morboso, ossessivo, proprio come con me. Indietro di tre anni con l’Università, aveva bisogno persino di chi gli prenotava gli esami sulla piattaforma universitaria, di chi mandava le mail al suo posto ai Professori, di chi gli scriveva i riassunti e lo aiutava a studiare. Di chi gli puliva la casa, gli stirava i vestiti, gli pagava l’affitto, lo svegliava al mattino. Tutte queste cose spettavano alla madre, prima che arrivassi io ovviamente.
Quella madre alla quale dava i baci sul collo, con la quale dormiva insieme quando se ne presentava l’occasione, che lo aveva cresciuto da neonato come il principino di casa, a pane e posatine d’argento per andare all’asilo nido. Quella madre che lo giustificava e lo idolatrava tanto da dargli l’appellativo di unico vero uomo della sua vita.
Quella madre imprenditrice, acculturata, elevata, emancipata, amante dell’arte e dei libri, benefattrice, che ne aveva coperto le malefatte e che rivolgendosi a me con una pacca sulla spalla, mi ribadiva sempre: Se fa così è perché ti vuole bene, lo capisci vero? Non è cattivo. Se non ti volesse bene non si arrabbierebbe così. Sei tu che devi cercare di capirlo e di non farlo arrabbiare.
D’altra parte, io facevo il possibile per schiacciarmi, per non emergere troppo perché emergere significava essere presuntuosa e arrogante, volerlo mettere in difficoltà e farlo sembrare inferiore a me. Facevo davvero il possibile ma era inevitabile: a me piaceva studiare, io sono sempre stata la più brava, ho sempre fatto tutto con grandissimo entusiasmo e felicità e questa gioia di raggiungere ogni traguardo mi si spegneva nel petto con una fitta di senso di colpa. Mi è sempre piaciuto fare tante cose, lavorare, viaggiare, studiare, scrivere, socializzare, tanto da pensare alla cosa successiva mentre ancora non avevo concluso quella precedente.
Io non ho bisogno di lavorare, io ho sempre avuto i soldi, io non ho bisogno di sporcarmi le mani.
E’ colpa dei Professori. Quest’Università fa schifo, è una barzelletta, gli esami li passi solo se sei una bella ragazza o se sei amico dei Professori.
Ma che ci vai a fare a lavorare? Te li do io i soldi.
In effetti, io studiavo tre settimane e prendevo il massimo dei voti, lui studiava tre anni e veniva bocciato. Non poteva accettarlo, come non poteva accettare il fatto che pur non essendo ricca quanto lui, pur non avendo ciò che aveva avuto lui, avevo comunque la forza e la voglia di fare ciò che mi piaceva e di raggiungere i miei obiettivi. Non lo avevo aiutato abbastanza, questa era la conclusione. E non sarei andata da nessuna parte, perché tanto non valevo niente, non meritavo niente, la mia famiglia faceva schifo, ero sola, se mio padre era morto era colpa mia che l’avevo fatto ammalare perché ero una poco di buono. Se queste erano le parole che mi riservava nei momenti di rabbia l’uomo che diceva di amarmi, evidentemente doveva proprio essere così.
Mi alzavo all’alba, andavo da lui per aiutarlo a studiare, poi studiavo il mio, poi andavo a lavoro, poi tornavo da lui, poi…
Tutto questo, in perenne lotta, cercando di cambiare le malsane abitudini secondo le quali iniziava a fumare erba e hashish alle nove del mattino e smetteva alle nove del mattino dopo, cercando più volte di obbligare anche me, in maniera ossessiva.
L’inizio idilliaco sembrava così lontano… eppure io, che ho sempre avuto una grandissima fiducia nella vita e nel mondo, non potevo credere che fosse stato tutto finto.
In tanti luoghi del mondo, in cui siamo stati insieme perché io non potevo andare da sola da nessuna parte e non potevo neanche contemplarne l’idea, ho pianto, sono scappata, ho provato dolore e solitudine. Fino a non avere più la forza nemmeno di piangere o di pensare ad una soluzione. Era così e basta. Mi sono sentita chiamare puttana, inferiore, bugiarda, strega, l’ho visto mettermi in cattiva luce con i miei stessi familiari e amici. Non potevo uscire con le amiche senza che lui venisse con me. Non potevo andare all’Università senza di lui. E quelle poche volte che lui non era con me, di sicuro il mio cellulare squillava, molte volte, come anche quello delle mie amiche, alle quali la sua morbosità faceva appiglio se mi azzardavo a non rispondere alle sue chiamate anche solo per distrazione.
Non era solo la mania del controllo, era anche il senso di vuoto incolmabile nella sua anima a farlo agire così: non poteva sopravvivere nemmeno trenta secondi senza vedermi e sentirmi, non poteva accettare di non avermi intorno, non poteva fare nulla senza il mio supporto.
Da episodi sporadici di cambiamenti di umore repentini, questa diventava sempre di più la mia normalità a poco a poco, amicizie e conoscenze iniziarono a dissolversi nella nebbia. Lui mi faceva terra bruciata attorno, mi metteva contro tutti comprando spazi e tempo con i suoi soldi verso i quali io non avevo il minimo interesse. Ma anche io, in effetti, ero molto cambiata: ero diventata molto più simile a lui che a me stessa. Rabbiosa, cattiva, reagivo a qualsiasi cosa, allontanavo tutti senza motivo. Non ero più io e per questo motivo, nessuno mi riconosceva.
E chi mi conosceva, non poteva non affermare che in quanto donna, ero sicuramente soggetta a cambiamenti d’umore, ero isterica, ero colpevole di non saper tenere a bada un uomo, di meritare ciò che avevo, di essere un’ingrata lamentosa che, seppur orfana e di certo non ricca sfondata, aveva trovato un ragazzo di buona famiglia pronto a ricoprirla d’oro e attenzioni, sul quale qualsiasi altra donna normale avrebbe messo la firma col sangue.
Col sangue, sì, perché di schiaffi, strattoni, botte in testa e minacce di prendermi e buttarmi dal balcone ne ricordo, altroché.
Tutto questo, ve lo giuro, una parte importante del mio subconscio era ormai convinta di meritarlo e l’unico sentimento che da un certo momento in poi ero in grado di provare era il senso di vergogna. Una vergogna e un imbarazzo totalizzanti, per le violenze – soprattutto quelle psicologiche – subite e perché ormai la sua capacità di manipolare il prossimo era giunta a manipolare anche me, come tutte le persone che avevo intorno.
Io non ero abituata a trattare gli altri così e non ero cresciuta affatto con un prototipo di donna succube, di famiglia disequilibrata. Perciò, non avevo mai imparato a ribellarmi velocemente ad una cosa per me del tutto nuova. Nella mia testa la vergogna era tantissima, tanta da spingermi inconsciamente ad ammucchiare la polvere sotto il tappeto e nascondere una situazione di cui mi incolpavo e che reputavo un mio fallimento.
Volevo trasferirgli il mio entusiasmo per il futuro e la mia sete di conoscenza ed esperienza, che mi stavano portando già molto più avanti di lui e di tutte le mie coetanee; ma non potevo riuscirci, perché la mela marcia non si tiene mai in equilibrio sull’albero troppo a lungo, prima o poi è destinata a cadere.
Per i motivi più disparati, io non amavo trascorrere il mio tempo libero e le mie vacanze estive nella sua casa d’origine in quella campagna vicina al mare, in quella piccola regione che desideravo – come spesso si dice in Italia come battuta – non esistesse per davvero. La odiavo, come odiavo la violenza e la manipolazione a cui ero sottoposta anche davanti ai suoi genitori, l’isolamento dal mondo nel quale mi aveva fatta piombare. E nell’oppormi, nell’odio e nella repulsione che ormai avevo per lui, nella bassa considerazione che gli manifestavo apertamente, annegavo sempre di più senza riuscire a tornare a galla. In un baratro di infelicità che mi consumava giorno dopo giorno come una malattia degenerativa.
Ero lo spettro di me stessa ed ero sola, perché quella seconda famiglia, che aveva sapientemente tessuto attorno a me una tela in cui ero intrappolata, non mi credeva, mi additava come complice e artefice delle pazzie del loro figlio, giustificava i suoi comportamenti e lo supportava. Nessuno mi credeva, nessuno si accorgeva, nemmeno le persone a me più vicine, in parte perché io non ne parlavo apertamente. Mi tenevo tutto dentro, semplicemente perché questo morbo che corrodeva la mia vita, io non sapevo individuarlo.
Non conoscevo le parole con il quale descriverlo, ero senza voce.
Nonostante fossi intelligente, studiassi, viaggiassi, mi emancipassi come persona e fossi sempre pronta a condividere e accogliere nuovi progetti, non conoscevo il fenomeno della violenza contro una donna in quanto donna e questo, forse, è l’elemento cruciale di questa vicenda: io ignoravo e, come me, tante altre donne.
Non puoi combattere un nemico se non lo riconosci come nemico.
Non ero, comunque, quel tipo di donna che assisteva inerme alle violenze subite, ero quel tipo di donna che si consumava dentro e fuori, incapace di stare zitta davanti ai soprusi, pronta a reagire fino a rischiare di morire ammazzata da un pazzo che ti urla contro con gli occhi pieni di sangue e la bavetta ai lati della bocca.
Finché la situazione non è peggiorata sempre di più, fino a precipitare. Ormai ero al limite, le liti sfociavano sempre in aggressioni verbali e fisiche, tanto da spingermi più volte a pensieri di morte, di suicidio. Questo non perché non amassi più la vita, anzi, tutt’altro: l’amavo ancora a tal punto da non riuscire ad accettare di averla messa in mano ad un maniaco ossessivo, privo di controllo, manipolatore, bipolare e con un senso di inferiorità patologico da non riuscire a diventare autonomo ed accettare i miei successi, la mia capacità di fare ogni cosa meglio di lui, nonostante fossi donna e mezza orfana. Era così incapace di accettare che non avessi realmente bisogno di lui per vivere, da dirmelo apertamente e sminuirmi giorno dopo giorno, nel tentativo di far nascere in me un bisogno viscerale.
E poi le bugie. Il bipolare e manipolatore, è probabilmente una persona estremamente bugiarda, capace di indossare una maschera così convincente da convincere persino se stesso. Non sapevi mai quale delle sue personalità stava parlando, nemmeno quando era calmo.
Decisi di partire per un annetto buono, per questioni di lavoro e per migliorare la conoscenza della lingua, cosa che feci: per questo motivo mi trasferii a vivere all’estero, per un periodo di tempo. Non poteva accettarlo, non poteva stare fermo, calmo, sereno, non poteva studiare né vivere una vita normale senza di me perché non era in grado.
E così, nella rabbia incontenibile dettata dal fatto che io stessi facendo nuove esperienze e nuove amicizie, approfittò della mia assenza per girovagare, diffondendo dicerie sul mio conto, dicendo a mia madre che ero in pericolo, che frequentavo brutte persone, che facevo brutte cose lontana da casa, che andavo con tutti. Se ne andava in giro, come probabilmente aveva fatto molte altre volte, a raccontare che le nostre liti erano una mia responsabilità, a negare di avermi alzato più volte le mani e ad inventare storie nelle quali le cose che lui faceva, ero io a farle.
Ed era in grado di costruire racconti e immagini davvero convincenti, alle quali avrei creduto persino io stessa. E ve lo giuro, la mia mente era così annebbiata da fermarsi a domandarsi: ma sono veramente io questa? Ma queste cose quando sono successe? Ma ha ragione lui? Io non ricordo…non ricordo più niente, non capisco più cosa sta succedendo…
Una parte di me, però, era ancora cosciente ed è a quella, evidentemente, che mi sono aggrappata nell’ultima fase. Iniziai a manifestare la volontà di lasciarlo. Bene! Penserete. Allora, ecco conclusa questa lunga storia.
No. La storia vera, quella di paura e angoscia, inizia proprio ora.
Non avrebbe mai accettato un’eventualità simile, non lui. Inizialmente, sembrava non avesse neppure compreso il senso delle mie parole. Non pareva comprendere che io non volessi più stare con lui. Continuava ad essere lì, come se fosse sordo: non era intenzionato ad abbandonare la mia vita e ogni volta che gli urlavo contro che non lo volevo, che doveva andarsene, lui ricominciava ad insultarmi, mi prendeva per il collo sbattendomi al muro e minacciava di rendermi la vita un inferno – minaccia che peraltro mantenne totalmente -.
L’ultimo ufficiale giorno della nostra relazione lo ricordo come si ricorda l’ultimo giorno vissuto in trincea, quello in cui senti suonare le trombe della liberazione ma ti accorgi di aver perso un braccio e di avere il corpo pieno di ferite. Non si è mai liberi per davvero, dopo aver combattuto una guerra.
Eravamo a casa mia, non ero potuta andare a lavorare perché lui si era presentato da me al mattino in preda all’ansia di stare solo e alla voglia di sfogare la sua follia. Non era entrato dalla porta, non lo avrei mai fatto entrare. Aveva scavalcato il muretto del cortile entrando dalla finestra. Ma io ero decisa, continuavo a ripetergli, con lucidità e fermezza, che doveva andarsene, che fra noi era finita, gli descrivevo ciò che mi aveva fatto in quei quattro anni e che individuo misero fosse sempre stato.
Ricominciò con le offese, stavolta andandoci più pesante del solito, attaccando i miei punti deboli per ferirmi, tentando come sempre di manipolarmi raccontandomi storie nelle quali ero io la violenta, l’aggressiva, la pazza, quella che si era intrufolata nella sua vita e nella sua famiglia perché cercava sicurezza, soldi, proprietà di non so cosa. A immaginare tradimenti da parte mia che non c’erano mai stati.
Vuoi lasciarmi? Non è così. Tu mi ami ed è per questo che ora stai così ma vedrai che cambierai idea. Ricordati che non troverai mai nessun altro che farà quello che ho fatto io per te. Ricordati che io non ti lascerò mai, non te lo permetto e soprattutto ricordati che stando con me, forse fra qualche anno qualcosa di quello che è mio sarebbe potuto diventare anche tuo, ci avresti guadagnato qualcosa. Sei una stupida. La mia famiglia meravigliosa ti ha accolta come una figlia, mentre tu guarda che ingrata che sei. Non hai mai avuto rispetto per loro e nemmeno per me. Mi hai tradito, hai fatto la puttana in giro mille volte e io ti perdono, lo vedi? Non te lo ricordi quante volte ho perdonato le tue scenate? Quel povero padre, altro che tumore, l’avrai ammazzato te. E’ colpa tua di tutto. E ora tu e quella tua famiglia di merda rimarrete da soli e senza niente. Tu ora dici così ma in realtà non mi vuoi lasciare. Sei solo una stronza, mi hai rovinato la vita, se ti azzardi a fare una cosa del genere ti ammazzo, anzi, mi pianto sotto casa tua, non ti lascerò mai sola.
Questa è solo una parte dei suoi discorsi, che in un attimo, fra le mie urla e il mio pianto, mutavano in improvvisi gesti di finto affetto, quasi morbosi, soffocanti. Passava dal ceffone al ti amo, pregandomi di non farlo più arrabbiare così.
E non smetteva, non se ne andava, finché piangendo e alzandomi da terra non ho afferrato il cordless di casa, uno di quegli oggetti ormai quasi scomparsi dalle nostre abitazioni. Ho composto il numero di emergenza della polizia ma lui mi ha raggiunta velocemente, strappandomi di mano la cornetta e lanciandola sul divano, dove ha lanciato con uno strattone anche me, dandomi uno schiaffo in faccia così forte da farmi quasi perdere i sensi.
Contestualmente, ha iniziato a toccarmi, ad abbracciarmi fortissimo, piangendo e implorandomi di fare sesso con lui – non dico “amore” come disse lui perché accostare questa parola a quel momento mi evoca ancora un senso di vomito -. Nonostante le grida soffocate e la mia preghiera di lasciarmi libera, ricordo lui che sudava e io che non riuscivo a fermarlo perché era troppo pesante e forte per me, impossibile da fronteggiare con quel poco di energia che avevo. E così mi ha costretta.
In quel momento ho capito che non sarei stata più la stessa persona di prima e forse era anche meglio così. Ma ho capito anche, che qualsiasi cosa fosse successa, qualsiasi pericolo mi fossi trovata ad affrontare, io non avrei mai più permesso a questo mostro di avvicinarsi. I pericoli derivanti dalla mia decisione di lasciarlo mi apparivano di colpo un’incognita infinitamente minore di quanto non lo fosse il pericolo di continuare così.
Mi costa tanto raccontarlo, davvero tantissimo perché vorremmo tutte fare parte di quel gruppo a cui queste cose non sono mai successe, quelle che pubblicano il link del post indignato il 25 novembre, quelle che compatiscono le altre, poverine. Io, evidentemente, non faccio parte di quel gruppo ma non significa che mi senta una persona sfortunata, o marchiata, o frustrata, o infelice. Tutt’altro.
Quel giorno, comunque, io non avevo più nemmeno la forza di minacciarlo di denuncia e non so come, ad un certo punto era sparito. Se n’era andato di corsa, forse per paura.
Io mi chiusi in camera a chiave, mia madre rientrò in casa con le buste della spesa pensando che io fossi a lavorare, senza sapere che ero chiusa a chiave in camera, stesa sul letto e tramortita. Dopo un po’, arrivarono cinque poliziotti in casa mia, mia madre sbiancò, si disperò, disse che io non c’ero. Entrò solo uno di loro, gli altri aspettarono fuori. Era successo che la chiamata fatta durante la lite e prima che io e il cordless fossimo lanciati sul divano era rimasta aperta, nessuno aveva premuto il tasto rosso per interromperla. E dall’altra parte avevano sentito tutto.
All’improvviso tutto era più chiaro: nonostante lo fossi sempre stata, solo in quel momento ero diventata ufficialmente la vittima. Mia madre era stata sempre all’oscuro di quello che stavo vivendo ma già era contraria al proseguo della relazione, da tempo, in quanto capiva che c’era qualcosa che non andava.
Nessuno capiva che avevo rimandato la decisione di lasciarlo anche per paura e che avevo ragione ad averne.
La polizia stilò un verbale, anche se non raccontai mai di cosa aveva preteso senza il mio consenso. Comunque, non è mai servito a niente. Non mi hanno affatto consigliato di denunciare, anzi, tutt’altro. Si sono solo offerti volontari di parlare con i genitori, cosa che non credo abbiano fatto. L’impressione che ho sempre avuto è quella di un’opinione generale del tutto superficiale, su questa situazione: è che non andavate d’accordo, lui è troppo geloso, è un amore tossico, meglio così.
Già, meglio così, alla fine sono ragazzate. La concezione di relazione come vincolo di prigionia condito da imposizioni, vessazioni e violenze, è qualcosa che appartiene solo a culture mediorientali, noi siamo diversi, noi siamo più evoluti. Queste cose succedono anche perché noi donne occidentali siamo diventate troppo arroganti, siamo uscite dal nostro ruolo di donne.
Ma qual è il ruolo di una donna? E perché un uomo deve incasellare per forza la mia persona in un ruolo prestabilito, perché è così spaventato da me e dalla mia forza di volontà?
Da quel giorno, comunque, è iniziato un incubo. Lui ha iniziato a tempestarmi di chiamate anonime, sul cellulare, sul numero fisso, persino sui cellulari delle mie amiche. Mi inviava mail deliranti, mi seguiva. Ho trovato persino delle scritte sulla mia auto: Mi manchi, ti amo, lo so che ti vedi con un altro.
Me lo ritrovavo dietro in macchina, fino a darmi l’impressione di averlo sempre intorno, nascosto da qualche parte, anche quando non c’era. E le chiamate continuarono incessanti per mesi, anche di notte.
Una sera, me lo sono ritrovato di nuovo sotto casa e questa volta, forse perché era passato del tempo, sembrava proprio cambiato. Anche le chiamate, da un paio di settimane erano cessate. Diceva che voleva parlare, che voleva chiedermi scusa senza volermi convincere a tornare insieme. Ho fatto l’ennesimo errore, sono salita in macchina con lui. Da lì, lo scenario cambiò completamente: i suoi occhi cambiarono, iniziò ad utilizzare toni aggressivi e a premere sull’acceleratore. Ho avuto forse più paura quella sera che in qualsiasi altra sera, perché iniziò a correre come un pazzo senza fermarsi agli stop né ai semafori. Alla fine, dopo aver dato spettacolo, la fortuna di trovarmi nel centro di Roma, affollato e pieno di gente che lo avrebbe sicuramente visto – anche se non sono sicura che qualcuno sarebbe intervenuto -, lo portò ad accontentare le mie grida e a farmi scendere.
A quel punto delle persone, che ringrazierò sempre, mi aiutarono. Poche, è vero. Ma nessuno si salva da solo, nessuna di noi può pensare di affrontare una situazione del genere da sola, di cambiare le cose. E’ bene che ce lo mettiamo in testa. Avrei potuto avere anche io la sfortuna di trovarmi in un luogo isolato, in prossimità di un bosco come quello dove si è trovata Giulia. Ho sfiorato il pericolo di trovarmi anch’io in un dirupo perché era esattamente ciò che lui minacciava di voler fare. Nessuno se ne sarebbe accorto perché la maggior parte delle persone lo conoscevano nelle vesti del fidanzato amorevole, del ragazzo affettuoso cresciuto in una famiglia unita.
Non sono state le forze dell’ordine e nemmeno i suoi genitori, a trovarlo e intimargli di smetterla e sparire. Sono state delle persone, una in particolare, che senza compatirmi né farmi sentire macchiata, si sono esposte e hanno messo la parola fine a questa storia. Perché non ero io quella bisognosa d’aiuto ma lui, sebbene nessuno di noi, forse, lo possa aiutare. D’altra parte, mia madre combatté questa battaglia insieme a me e poté come me appurare che i suoi genitori, sua madre in particolare, continuavano a difenderlo. Negare, negare sempre.
Mio figlio non è così, non ha mai fatto del male a nessuno. Vi state inventando tutto, mio figlio non può aver fatto queste cose. Sono solo liti tra ragazzi perché sai, lui è molto innamorato, per questo fa così.
Per puro caso, venni a conoscenza di alcuni particolari che lui e la sua famiglia mi avevano sempre nascosto. Un passato di droga, di spaccio, in cui da ragazzino era stato espulso da tutte le scuole della sua regione ed era stato costretto ad iscriversi in una scuola privata fuori regione, dove andavano tutti i figli problematici di famiglie benestanti. La storia che mi era stata raccontata, da sua madre, era un’altra. Perché tentare di rovinare la vita di una ragazza? Avrei potuto essere sua figlia.
Sono proprio felice che mio figlio abbia trovato una brava ragazza come te. Lavorerai tu in azienda un domani, finalmente è arrivato qualcuno in grado.
E il padre, a quanto pare, aveva anche lui combinato dei guai e rischiato grosso, per questo motivo la moglie aveva messo in campo alcune sue amicizie altolocate, per ripulire la fedina penale di entrambi. Era per questo motivo che le forze dell’ordine, dopo una ricerca, mi avevano detto quindi di lasciar perdere.
Sei una donna sola, con tua madre, lascia perdere. Cadranno sempre loro in piedi, non puoi dimostrare nulla.
Una parte della mia vita, ora ne ero certa, era stata una totale bugia, una menzogna, un virus che aveva colpito me e chi avevo intorno.
Negli anni ha provato a mettersi nuovamente in contatto con me ma senza successo. Sono certa, comunque, che persone così non possano cambiare, soprattutto perché ciò che hanno attorno non può e non vuole cambiare. Credo che se lo vedessi, non lo riconoscerei neppure. Non ricordo il suo viso, non ricordo niente di lui. Ricordo solo di aver perso gli anni più belli della mia vita, quegli anni che di sicuro non torneranno. E’ in quegli anni che una parte di me è morta per sempre. A volte mi capita di sentire la mancanza della me perduta, poi però penso a quanto questa situazione mi abbia insegnato. Sono veramente fiera della forza che mi ha dato e capisco solo ora, a distanza di anni, che ad aiutarmi siano state solo due cose: poche persone accanto a me e, poi, il carattere, quella profonda forza innata che non mi ha mai abbandonata. Vorrei che Giulia avesse avuto queste due cose come le ho avute io. E invece oggi, come pure domani, un padre dovrà piangere la sua assenza, l’ingiustizia di una cultura assurda che si è portata via una mente brillante, una donna piena di talenti e valori.
Io non lo so di chi è la colpa, so solo che continuiamo a fare un grande errore, quello di minimizzare, di prendere alla leggera, comportamenti che invece devono fungere da campanelli d’allarme.
Io ero ingenua, ignara, voi no. Mi rivolgo a voi, ragazze di oggi, voi siete molto più sveglie e cazzute di quanto non lo fossi io. Avete tanti strumenti in più a vostra disposizione, vi potete difendere, potete chiedere aiuto senza sentirvi in colpa di nulla. Voi siete la mia speranza più grande e spero comprenderete, prima o poi, che emancipazione non significa essere volgari quanto un camionista o aggressive quanto un uomo. E non significa farci la guerra fra noi donne, con invidia, gelosia e cattiveria.
In quegli anni, i miei vent’anni, quasi nessuno parlava di violenza di genere.
E tu che hai fatto per farlo arrabbiare così?
Scusa ma perché ci sei stata insieme tutto quel tempo allora? Si vede che ti andava bene così.
Te la sei andata a cercare!
Erano queste le parole che sentivo risuonare all’epoca.
E io lo so, LO SO, mamma, sorelle, amici, amiche, che questa è proprio una storia che non avreste mai voluto leggere. Ma dovrete farlo ugualmente e assieme a voi, tutti coloro che hanno una parte di responsabilità nella mia storia e in quella di tante altre donne.
Ne parlo oggi perché oggi riscontro una crescente sensibilizzazione verso questo tema. Oggi, finalmente, si è accesa in me la speranza che qualcosa possa cambiare. Vedo comparire campagne social, monologhi, storie simili alla mia, donne pronte a denunciare, vedo finalmente ammissioni di colpa da parte della società, vedo futuro.
Le parole sono l’unico modo che abbiamo per combattere l’aggressività, la violenza, per sensibilizzare il mondo a diffondere messaggi positivi, di evoluzione. E non è vero, che potevamo parlarne prima, che potevamo denunciare prima, che è troppo comodo dirlo adesso.
Non è comodo, non è facile, non lo è mai stato. Voi non immaginate nemmeno quanto sia difficile, sapere che da questo momento in poi, tutti sapranno.
Ho cancellato e riscritto queste parole almeno cento volte, ho atteso oltre una settimana prima di pubblicarle. Non immaginate quanto sia complicato arrivare alla fine di tutto questo, uscirne dovendo ammettere di essere state con un uomo violento. Perché non è una cosa che puoi cambiare, ormai è successa.
Le idee invece possono cambiare, io ci credo; per far sì che questo accada occorre però condividerle fra di noi e stabilire finalmente un nuovo concetto di giusto e sbagliato.
Dal giorno in cui questa vicenda, durata anni di angoscia e paura, si è conclusa, è iniziata la mia vera vita. L’oscurità si è diradata e sono finalmente diventata me stessa, quella che ero già dentro di me. E sono cresciuta, percependo in me una forza e una serenità che non sapevo di avere. Ho fatto mille cose, imparato mille cose, mi sono realizzata sotto molti aspetti e continuo ad impegnarmi per realizzarmi sempre di più. Ho fatto cose che non credevo possibili, ho conosciuto persone e luoghi.
Ho riempito la mia vita di amore in ogni angolo, un amore che cerco di mettere ogni giorno in ogni piccola cosa. Perché ne ho imparato il valore, come ho imparato il senso di responsabilità, il sacrificio, la dedizione.
Non c’è più niente in grado di scalfirmi, non c’è muro che io non possa abbattere. E ogni piccola cosa è per me fonte di gioia e di nuova luce. Non ho perso fiducia negli altri, non odio le persone. Anzi, accoglierò con felicità l’amore romantico, se avrò la fortuna d’incontrarlo.
Non sono una persona segnata, sono una persona fortunata, molto felice e che ogni giorno lotta per farsi spazio in un mondo di uomini. E per mondo di uomini non intendo in quanto uomini ma mi riferisco ad un’impostazione culturale protesa all’affermazione della virilità come elemento imprescindibile per il sostentamento della civiltà.
Noi non ne abbiamo più bisogno, di questo ridicolo teatrino. Noi abbiamo bisogno di sentirci libere di cambiare idea, senza aver bisogno di nessuno. Di sentirci libere di avere amanti, amori, amici, soldi. Senza che questo ci faccia apparire superficiali o poco serie.
Abbiamo bisogno di non sentirci deboli dopo aver vissuto un’esperienza come la mia, bensì forti, migliori, di poter ringraziare alcune esperienze, perché solo dopo averle vissute siamo diventate Donne.
Io mi sento una persona privilegiata. Perché nonostante tutto, sono viva. La colpa di aver permesso a quella persona di farmi così tanto del male me la porterò dietro a vita, una colpa che cerco di espiare difendendomi da ogni approccio sbagliato, da ogni modo sbagliato di parlarmi o di agire nei miei confronti. E che cerco di espiare facendo del mio meglio nella vita in generale, cercando sempre il confronto, la sincerità, la correttezza verso il prossimo, senza giudicare mai nessuno. Non pretendo di riuscirci sempre ma almeno ci provo.
Con grande empatia, mi sono rivista in una ragazza che non ha avuto la mia stessa fortuna perché nessuno è sceso in campo per aiutarla e perché forse, brillante qual era, si era convinta di potercela fare da sola.
Non voglio disturbare, me lo dicevo sempre anch’io. Perché noi donne a volte ci sentiamo un peso, per gli uomini, per i famigliari, persino per noi stesse. Perché abbiamo paura di rubare qualcosa, se pretendiamo indipendenza, autonomia, parità di trattamento, considerazione.
Qualche settimana fa sono andata da un consulente per chiedere un mutuo per una casa e in men che non si dica, mi sono vista circondare da donne pronte a fare la morale su che cosa significa stare sole al giorno d’oggi e voler per forza fare tutto da sole. I soldi non sono abbastanza e le responsabilità sono troppe, meglio trovare qualcuno disposto a mettere la firma o le garanzie, per condividere un mutuo che tanto una donna sola non può permettersi e che la Banca non concederà mai.
Non ho ancora capito se il senso è che non guadagno abbastanza o che non sono abbastanza.
Tutto questo mi intristisce profondamente, specialmente se detto e pensato da una donna. Perdiamo di vista l’elemento fondamentale: continuando a non darci una mano, a non comprenderci, a non starci vicino, non faremo che peggiorare le cose.
Noi dobbiamo lavorare affinché le cose che sembrano difficili diventino facili. Affinché vivere da sole non ci appaia più come essere sole. Perché solo con l’indipendenza economica, l’autonomia, il senso di sazietà verso noi stesse, la propensione a buttarci in nuove avventure e prenderci responsabilità senza più avere paura, riusciremo a combattere l’oppressione. E questa consapevolezza ci porterà a non aver più bisogno dell’uomo morboso, che ci dice cosa possiamo o non possiamo fare, che ci tratta come un prolungamento del suo braccio, ma dell’uomo che aggiunge senza togliere e senza usarci per colmare i suoi vuoti.
Noi non sappiamo ancora del tutto distinguere la violenza da ciò che non lo è, l’amore dal non amore, è questa la verità. E misuriamo la voglia che abbiamo di stare con qualcuno con il bisogno.
Sono molto triste se penso agli anni che ho perduto ma sono molto felice perché colma di nuovo amore per il prossimo. L’essere tornata finalmente autonoma e libera mi rende in grado di mostrarmi sempre per chi sono veramente, con la convinzione che otterrò tutto ciò che voglio ottenere nella vita e lo farò con rispetto.
Finché la società sarà sempre programmata per additare come arroganti le donne che non si accontentano di chiunque ma aspettano quello giusto, per ridere in faccia alle donne che chiedono di coronare il sogno di comprarsi una casa con i propri sacrifici, non so effettivamente quanto le cose possano cambiare.
Finché i genitori cresceranno i figli con il concetto di proprietà e di amore incondizionato, non so quanto realmente le cose potranno cambiare.
Finché dovrò avere paura di parcheggiare troppo lontano da casa e percorrere una lunga strada buia a piedi di sera, non so quanto le cose possano cambiare.
Ogni giorno è una lotta, a gomiti alti mi faccio spazio fra un commento maschilista e l’altro, fra un giudizio retrogrado e l’altro, in un mondo fatto di individualismo e narcisismo in cui nessuno fa più una telefonata per sapere come stai, in cui nessuno si preoccupa per gli altri e nessuno tende la mano al suo prossimo senza aspettarsi nulla in cambio.
E’ proprio un cambiamento strutturale e di punti di vista che deve mettersi in atto, perché sono convinta che una legge non basterà, come non basterà battersi il petto durante la giornata per la violenza contro le donne.
Ogni giorno in cui muore una donna per mano di un uomo è un passo indietro che facciamo come civiltà e come esseri umani. Ogni volta che accettiamo di far vincere la paura, quella paura di cambiare vita, di vivere il presente con le nostre sole forze senza dipendere da nessuno, è un passo indietro che facciamo come civiltà e come esseri umani. Ogni volta in cui ci vergogniamo di raccontare la nostra storia di violenza perché nessuno ci crede, perché ci additano come pazze esagerate, è un passo indietro che facciamo come civiltà e come esseri umani.
Ogni giorno in cui ci accettiamo che sia normale il cat calling, che la pacca sul culo del collega o dell’amico non sia nulla di grave, che la violenza non ha genere e che il patriarcato non c’entra nulla perché non sono tutti così, è un passo indietro che facciamo come civiltà e come esseri umani.
La violenza non ha genere ma la violenza contro le donne sì, ce l’ha. Non sono tutti così ma non è ammissibile il dover pregare di non incontrare mai più uno così.
Io il coraggio di raccontarvi la mia storia l’ho avuto. Sono convinta che lui sia da qualche parte, chissà dove, a raccontarne un’altra, senza destare il minimo sospetto. Se doveste incontrarlo, statene certi, negherà tutto, a distanza di anni, perché certi uomini non possono cambiare e, per contro, cercano di cambiare noi.
Quello che mi fa più rabbia è che Giulia avrà ventidue anni in eterno mentre io ho avuto la fortuna di compierne altri dieci. E’ stata solo fortuna, la mia, accompagnata da poche, pochissime persone in grado di comprendere cosa stava succedendo e aiutarmi. Da adesso in poi, le persone che hanno davvero amato Giulia piangeranno la sua assenza e al suo posto potevo esserci io. Potevamo esserci tutte noi.
La violenza sulle donne vi riguarda, cari uomini, anche se continuate a girarvi dall’altra parte e fingere di non essere voi, di non avere colpa, di non saperne nulla. Vi riguarda anche nelle parole, nei gesti, nel modo di intendere la vita e le relazioni. E’ arrivato il momento in farci i conti.